Capitolo 30 - Isabella
La chiglia
bianca della barca scivolava sulle acque scure del lago, lasciando dietro sé
una scia che come un nastro di luce sembrava inseguirla. Il Sole era alto nel
cielo e i suoi raggi penetravano il biancore delle vele sciolte che ancora
ondeggiavano scomposte in attesa di vento.
Tutto
era tranquillo e insolitamente immobile.
Le
cicale, nascoste tra i cespugli, sfregavano le loro ali producendo quel canto
costante che accompagna la stagione estiva, tentando di zittire il sordo
borbottio del motore che, faticando, trascinava la barca lontano dalle sponde.
In
piedi, sulla passerella del piccolo pontile, osservavo Edward seduto al timone,
con la mano poggiata sulla fronte per
farsi scudo dal sole. Non sopportava gli occhiali scuri e preferiva stringere
gli occhi fino a renderli fessure, facendo apparire agli angoli quelle sottili
rughe che trovavo irresistibili. I capelli ribelli sembravano non trovare pace,
mentre le sue mani cercavano inutilmente il modo di domarli. Sorrideva come un
bambino al quale è stato regalato un nuovo gioco e mi si strinse il cuore per
la gioia di rivederlo felice.
Mi
sedetti sulla panchina di legno del piccolo molo, allungando le gambe, mentre la brezza del
pomeriggio scivolava su di me accarezzandomi.
Il
cielo era libero da nuvole e quando alzai gli occhi rimasi prigioniera di quel
blu intenso che si rifletteva poi sullo specchio d’acqua che avevo di fronte. Non
ci fossero state le colline a dividerli, cielo e terra si sarebbero fusi insieme
in un tutt’uno.
Mi
voltai verso la villa.
Lia
stava rassettando il portico, dove Edward ed io avevamo pranzato poco prima,
lasciando che il tempo non fosse mai abbastanza per saziarci uno dell’altra. La
tranquillità di quel luogo aveva sortito un profondo cambiamento in entrambi e
sebbene le giornate avessero la durata di sempre, la sera sembrava giungere con
più calma, lasciandoci il tempo di godere dolcemente ogni singolo attimo che
quell’angolo di paradiso riusciva a regalarci.
Prima
che l’immagine di lui apparisse indistinta, Edward alzò la mano agitandola
nella mia direzione ed io risposi alzando entrambe le braccia e lanciandogli un
bacio che si perse nell’aria e lui non vide arrivare. Bob era con lui e si
spostava da un lato all’altro della barca per sistemare le cime in modo da trovarsi
preparato nel momento in cui il vento li avrebbe portati con sé. Era vestito di
bianco e si sarebbe confuso con i colori della barca se non fosse stato per la
sua pelle scurissima che risaltava in tutto quel chiarore.
Era
passato più di un mese da quando lo avevo incontrato la prima volta e
nonostante mi fosse sembrato ambiguo, arrogante e assolutamente un individuo da
evitare, col tempo si era rivelato invece un ottimo amico per Edward, che aveva
bisogno della presenza di un uomo che non fosse un medico o un fisioterapista;
qualcuno col quale parlare di tutte quelle sciocchezze che soltanto tra uomini sembrano
interessanti. Trascorreva con lui almeno due pomeriggi la settimana, quando il
suo intenso programma lo permetteva e mi rincuorava accorgermi di quanto fosse altrettanto
terapeutico lo stare in barca con quell’uomo. Le prime volte mi aveva portato
con sé, convinto di non potermi stare lontano o di farmi un torto, ma una volta
che mi ero resa conto di quanto la mia presenza lo condizionasse mi ero messa
in disparte, con la scusa del lavoro e la cosa sembrava aver funzionato.
Bob
probabilmente era preparato a gestire una persona non del tutto autonoma e
sembrava perfettamente a suo agio anche quando le difficoltà di Edward
richiedevano un suo intervento. Avevano trovato l’intesa ed ora ognuno si
muoveva su quello spazio angusto senza problemi.
Le
terapie dell’ultimo mese avevano sortito un mutamento tale nelle capacità
motorie di Edward che io stessa stentavo a credere ai risultati. Sotto ai miei
occhi l’avevo visto alzarsi da solo e muovere i primi passi appoggiandosi alle
stampelle. Era un miracolo. Rose gli era accanto sempre ed ero rimasta
sconcertata da quanta costanza e pazienza avesse con lui e con quanta serietà
svolgesse il suo lavoro. Un lavoro duro
ed estenuante. Lo aveva accompagnato lungo tutto il percorso terapeutico senza risparmiarsi,
curandosi che tutto fosse portato avanti esattamente come Jasper richiedeva e
nonostante fosse evidente che non stesse bene, non aveva mollato un solo
attimo. Segretamente la ammiravo per questo e da tempo mi ero anche resa conto di
quanto, la mia pretesa di sostituirla in principio, fosse stata una vera
sciocchezza. Mi chiedevo però cosa significasse quel suo cambiamento radicale. Non
sembrava più lei. Era sempre più pallida nonostante cercasse di coprire il volto
con un trucco più marcato. La sua pelle non aveva preso colore come era
successo a tutti noi, perché, quando non
era in palestra con Edward, rimaneva sempre chiusa in casa. Non la capivo. O
forse non volevo curarmi di cosa la turbasse. Dentro la mia testa serpeggiava
sempre il dubbio che in tutto questo c’entrasse il mio riavvicinamento con
Edward, ma allo stesso modo qualcosa, nella mia coscienza, mi suggeriva che mi
stavo sbagliando. Quella ragazza aveva un qualcosa che le rodeva e non trovava
modo di liberarsene, un’angoscia silenziosa che la tormentava costantemente.
Potevo capirla, mi ero sentita così molte volte e per lungo tempo ed era questa
consapevolezza, forse, che mi costringeva a starle lontana. Qualche volta mi
era venuta voglia di spingermi oltre il giardino per parlare con lei, per
scoprire cosa nascondesse, un dettaglio, qualsiasi cosa, ma subito dopo la rivedevo
correre quasi nuda sul corridoio di casa mia e il buon samaritano che era in me
si trasformava in Caronte. Avevo altre cose a cui pensare, Edward, la sua salute,
il nostro rapporto da ricostruire, tutto a mio parere più urgente e importante
e accantonavo quindi quell’idea lasciandola in sospeso.
Eravamo
lì da quasi tre mesi e a parte un paio di visite di Emmet, durate qualche ora
soltanto, nessuno, oltre le persone addette ai lavori, aveva messo piede nella
villa. Jasper aveva annunciato che la settimana seguente, in occasione del
compleanno di Alice, sarebbero venuti da noi a trascorrere qualche giorno di
vacanza in compagnia. Edward ed io eravamo eccitati per l’evento. Le stanze
degli ospiti erano state preparate con largo anticipo e Lia e Marta erano già
in fermento per i menù da preparare. Edward insisteva nel dire che il vino non
sarebbe stato all’altezza e aveva costretto Jasper ad andare nel nostro
appartamento per rifornirsi, indicandogli dettagliatamente cosa prendere e dove
cercare. Una ventata di novità avrebbe certo giovato ad entrambi che, troppo
occupati a ritrovare noi stessi, stavamo dimenticando il resto del mondo.
Quella
vacanza aveva rappresentato un nuovo inizio e il nostro rapporto era diventato
forse migliore di quanto lo fosse prima dell’incidente. C’era una
consapevolezza nuova di quello che eravamo l’uno per l’altra, di ciò che
potevamo diventare e di come le nostre vite fossero unite indissolubilmente.
Non mi ero mai sentita così serena e soddisfatta come lo ero adesso. Speravo
fosse lo stesso per Edward. Ancora non ne ero certa.
In
quell’oasi di pace dovetti ammettere che il suono del cellulare, trillante
nella mia tasca, stonava decisamente.
-
James,
ciao. Credevo che il sabato fosse il tuo giorno libero, hai deciso di
rinunciare anche a quello? – Mi stupiva la sua chiamata, considerando che ci
eravamo sentiti solo un paio d’ore prima.
-
Bella,
lascia perdere! È successo un casino. – Era affannato come se avesse fatto una
corsa.
-
Che
c’è? Stai calmo. – Non era da lui fare
così.
-
Ti
ricordi il Giudice Norton? –
-
Certo
che me lo ricordo, è lui che seguirà il processo. –
-
Beh
è morto ieri sera. Ha avuto un infarto mentre
giocava a bridge con gli amici in casa sua e c’è rimasto secco. La moglie ha
dato la notizia solo un’ora fa. –
-
È
terribile, mi dispiace molto. Norton era una brava persona. Andrete al
funerale? – Non pensavo fosse necessario rientrare a casa. L’ufficio avrebbe di
certo mandato qualcuno di rappresentanza.
-
Ma
che ti frega del funerale, non lo so! So soltanto che siamo tutti qui a
incrociare le dita in attesa di sapere chi verrà assegnato come suo sostituto.
Ce ne sono tre in lista e mi auguro solo che non sia Johnson o siamo nella
merda. –
-
Quello
del processo Graam?-
-
Si,
lui. Non lo sopporto. – Stava camminando su e giù, mi sembrava di vederlo.
-
Perché
dici così? Non ricordo fosse male. – La conversazione mi stava allarmando.
-
Quell’uomo
ama complicare le cose ed è possibile che sposterà il calendario delle udienze in
tribunale. Comunque staremo a vedere, Lunedì sapremo di chi si tratta. Volevo
metterti in guardia subito, perché se fosse - sospirò nervoso, sapendo di
dovermi ammazzare - dovrai tornare a casa Bella. –
-
-Ma
non può farlo, creerebbe un sacco di problemi anticipando le date e non
soltanto a noi. Sarebbe una follia. Vedrai che nessuno accetterà una cosa
simile. – Non ne ero molto sicura.
-
Te
l’ho detto tempo fa e te lo ripeto, è un fanatico del suo lavoro e gli piace
comandare, tenere tutti in pugno, quindi non aspettarti trattamenti di favore
se dovessero scegliere lui. Cazzo! Ti rendi conto? Stava andando tutto così
bene. Questa non ci voleva. –
-
Lo
dici a me. – Mi accasciai sulla panca.
-
Bella
ti prego, non fare scherzi anche tu eh? Se mi molli qui da solo sai bene che
non potrò farcela. – Non risposi. Lui incalzò cambiando tono.
-
Bella,
tesoro…- La sua voce si era ammorbidita, era tornato ad essere il mio amico. – …ci
sei? –
-
Si,
scusami. È solo che… - Non riuscii a terminare la frase.
-
Ora
sta calma tu. Aspettiamo di vedere cosa accade lunedì prima di disperarci.
Speriamo che Dio ce la mandi buona. Ora vado tesoro, ho un sacco da fare. –
-
Ok!
– feci una pausa – James… - Non mi sentì. Parlava a qualcun altro.
-
Ciao.
– Mi disse distratto e in attimo era già lontano.
Riposi il telefono
accanto a me lentamente e mi accasciai sullo schienale della panca.
Tutto lo splendore che
avevo intorno improvvisamente mi infastidiva.
La barca di Edward
era ormai solo un puntino di luce sul tappeto blu che avevo innanzi e rimasi a
fissarlo aggrappandomi alla speranza che, se fosse accaduto quel che James
aveva previsto, lui avrebbe capito,
ma dubitai. Dubitai profondamente.
Timore
e Rimorso si arrampicarono lungo le
viscere fino a saltellare sul mio
stomaco.
Ragione e Buonsenso,
appoggiati l’un l’altra, aspettavano che si stancassero per rimettere tutto a
posto.
Strofinai le mani sul viso quasi a
scacciare le immagini negative che senza volerlo venivano partorite dalla mia
mente. Cosa avrebbe fatto Edward se fossi stata costretta ad andarmene? Quale
giustificazione valida avrei potuto dare per fargli questo? Nessuna. Non
avrebbe mai capito. Mai!
Timore e Rimorso fecero un
salto mortale ridendo.
Ragione
e buonsenso
si guardarono scuotendo la testa.
Tutti
i traguardi raggiunti in quel breve lasso di tempo potevano essere compromessi
e la colpa sarebbe stata soltanto mia. Avrei dovuto decidere quali fossero le
mie priorità, ma la realtà era che non sapevo che fare .Come una statua
osservavo il dondolio dolce delle acque del lago, quasi che perdermi in quel
movimento avrebbe fermato il tempo, impedendomi di dover scegliere. Cercavo
disperatamente una soluzione che potesse accogliere entrambi i consensi, ma la
mia mente non era lucida e dovevo darmi il tempo di calmarmi e di soffiare via
quella nebbia che mi avvolgeva i pensieri. Avevo poco più di un giorno per
ritrovare l’equilibrio, per tornare la Isabella di prima, tutta numeri e
autocontrollo.
La
sola idea mi diede il voltastomaco.
Timore e Rimorso volarono fino al cuore,
aggrappandosi fino a graffiarlo e stringendolo forte.
Ragione
e Buonsenso sollevarono gli occhi e, abbracciandosi sconvolti, rimasero a
guardare.
Non
riuscivo nemmeno a pensare di tornare ad essere la cinica e disturbata Isabella
di prima, non lo volevo…non più. Essere di nuovo l’amore di Edward mi aveva
sanata e quel germe malato che mi avvelenava l’anima ora non viveva più dentro
di me. Liberarmene mi era costata fatica e dolore e ora non avevo posto che per
la nuova me ritrovata.
Amore.
Come
potevo chiamare amore quello che provavo per lui.
Come
potevo farlo comportandomi poi in quel modo.
Ragione e Sentimento
sono nemici attenti quando li si mette una di fronte all'altro, perché l'amore non ha logica ne regole, vive di vita propria, non
è comprensibile o spiegabile e la miglior cosa da fare è assecondarlo e vedere
dove ci porta.
Ma
dove aveva portato me?
Cosa
avevo imparato da tutto quello che avevo vissuto fino adesso?
La
vita mi aveva costretta a sbagliare e sbagliare ancora.
Quanto
tempo ancora avrei dovuto ripetere gli stessi errori prima di fare la scelta
giusta?
Mi
costrinsi ad alzarmi per non vedere la mia colpa prendere il largo e
raggiungere colui al quale era rivolta, aggredirlo alle spalle e appena
risollevato rigettarlo a terra.
Mi
sollevai dalla panca come se sulla schiena trasportassi dei sassi, tale era il
peso dello sconforto che avevo addosso. Attraversai lentamente il prato fino al
portico, dove Lia aveva ormai quasi terminato il suo lavoro. Mi guardò negli
occhi sollevando lo sguardo dai cuscini che stava sprimacciando.
-
Va
tutto bene? Hai l’aria di chi gli è morto il gatto. –
-
Si!
– Risposi come un automa lasciandomi cadere sul divanetto appena sistemato.
-
Si
vede, tutta vita proprio. – Ironizzò.
Mi girava intorno come se facessi parte dell’arredamento
e una volta che fu tutto a posto sospirò parandomisi davanti.
-
Perché
non vieni con me? – La guardai sorpresa. Le mani ai fianchi, sguardo deciso.
-
Qui
non hai niente da fare e io devo andare all’emporio giù in paese per fare la
spesa. Non ti farebbe male uscire un po’ da questo angolo di mondo e due mani
per portare le borse non mi dispiacerebbero. Che ne dici? –
Ero esterrefatta, come se
mi avesse offerto una libertà che credevo già di avere, ma che una sola
telefonata mi aveva tolto. Cambiare aria in quel momento era forse la cosa
migliore e poi Edward non sarebbe tornato per almeno un paio d’ore. Potevo
andare e tornare senza che lui nemmeno
se ne accorgesse.
-
Sei sicura?. – La
guardavo nei suoi occhi intensi.
-
Certo che lo sono. – Lo
era davvero. Mi arresi.
-
Forse hai ragione Lia. –
-
Ricordati cara che io ho
sempre ragione. – Rise forte senza farsi alcun problema. Era contagiosa e
confortante la sua allegria. L’adoravo per questo.
-
D’accordo,
vengo. Purché tu mi prometta che saremo di nuovo qui quando Edward rientrerà
dal giro in barca. Ce la facciamo? –
-
Facciamo
in tempo a fare anche la torta di mele che ho in programma, ma se non prendiamo
le mele…niente torta. – Sorrise serena strofinandosi le mani sul grembiule che
indossava. Lo tolse e mi invitò a seguirla.
-
Mi
lavo le mani, prendiamo Giovanni e il cane e si va, ok? – Si mise a chiamare il
bambino a gran voce e in due minuti eravamo pronte.
Ero quasi eccitata
per quest’improvvisata di Lia e quando sedetti nel suo furgone mi sfuggì pure
una risatina sciocca. Potevo per un attimo mettere quella storia da parte e non
pensarci. Tre mesi erano bastati per
sentirsi fuori dal mondo, anche se quel mondo era tutto ciò di cui avevamo
bisogno quando eravamo partiti da San Francisco. Legai la cintura e indossai
gli occhiali da sole. Giovanni e il cane riempivano quei silenzi che altrimenti
in casa mi avrebbero soffocata. Ringraziai il cielo di avere accanto persone
come Lia e Marta, felici e soddisfatte davano una carica di positività alle
nostre vite.
Osservai ciò che
apparve alla fine del vialetto alberato, oltre il cancello che avevo veduto
solo il giorno del nostro arrivo. La strada era ampia come la ricordavo e scendeva
verso un incrocio dove svoltammo a destra, costeggiando il lago. Come già
sapevo quella zona non era molto popolata, nemmeno in estate, ma, via via che
ci avvicinavamo al paese, il numero di auto aumentava e ai lati della strada
c’erano famiglie e coppie che passeggiavano in abiti leggeri e costume da bagno.
Un carretto dei gelati stava attraversando il parco giochi alla nostra sinistra
e tutti i bambini accorrevano impedendo al ragazzo che lo guidava di
raggiungere la sua meta.
-
Sai
Isabella, ci sono famiglie che tornano qui ogni anno in vacanza da generazioni
ed è come se facessero parte della comunità di Round Hill Pines Beach. Senti come suona bene eh? Questo lago ha fatto
innamorare un sacco di coppie che ora tornano qui con i loro figli.-
-
E’
bellissimo. Ne conosci qualcuna? –
-
Oh!
moltissime. Prima di lavorare nella villa ero commessa all’emporio dove andiamo
ora e li ho visti passare tutti i turisti della zona. Vedrai che ti piacerà, è
molto caratteristico. –
-
Caratteristico?
In che senso? – Ero incuriosita.
-
Lo
vedrai. – Svoltò nella piazza, parcheggiando il furgone accanto ad una piccola fontana.
Giovanni e il cane quasi sfondarono la porta gettandosi fuori dall’abitacolo e dopo
essersi abbeverati al volo, ,li vidi sparire correndo tra i cespugli del parco.
-
Non
ti preoccupare – mi rassicurò Lia – conoscono quel posto come le loro tasche e
sono al sicuro. –
-
Se
lo dici tu, ok! –
-
Vieni
e prendi per favore quelle borse che trovi sotto al sedile. –
Feci come mi aveva chiesto e la seguii.
Percorremmo la strada nella direzione
opposta al parco e appena dietro l’angolo si aprì in una grande piazza al cui
centro zampillava una fontana di grandi dimensioni. Era quadrata e molto
originale. Al centro vi era la statua di un orso con accanto il suo cucciolo.
Lungo il bordo vi erano sedute molte persone che giocavano e ridevano, immergendo le mani nelle acque fresche delle
vasche.
-
Vieni,
siamo arrivate! – Lia mi distolse dallo spettacolo e la seguii.
L’edificio era in un unico piano e molto
ampio. La facciata era dipinta a murales e riportava paesaggi di montagna esattamente
uguali a quelli che si vedevano alle sue spalle. Sorrisi guardandomi intorno e
Lia mi spiava con la coda dell’occhio.
-
Tutto
qui? – Le chiesi.
-
Purtroppo
no! – Sospirò ridendo.
Varcammo l’entrata seguendo una famiglia
rumorosa, mentre i bambini agitati scorazzavano intorno a noi. Uno mi pestò un
piede e una volta all’interno abbassai lo sguardo per constatare i danni.
Lia era due passi avanti a me e si girò a
guardarmi.
All’improvviso fui accarezzata da un suono
dolcissimo e allo stesso tempo “antico”, non trovavo un aggettivo che definisse
meglio quelle note sofferenti e carezzevoli. Sembrava che mille folletti dei
boschi facessero vibrare gli steli dei fiori o che sbattessero delicatamente tra
loro bolle di cristallo colme di petali, era bellissimo. Sollevai la testa,
così come vidi fare a tutti coloro che entravano dopo di me e li vidi.
Centinaia di fili trasparenti appesi al soffitto ai quali era legata una sorta
di pietra ovale modellata, sopra la quale vi erano incise…o forse disegnate a
pirografo o non so cosa, le immagini dei boschi. Ce n’erano a migliaia e, mosse
dal flusso delle persone, sfiorandosi producevano quel suono.
-
Ma
è meraviglioso. Incredibile! – La bocca aperta ero completamente rapita da
quella volta melodiosa.
-
Te
l’avevo detto che era particolare, no? – Lia se la rideva e afferrandomi il
polso mi trascinò al bancone come fossi una bambina.
-
Ma
li vendono? Io li devo avere assolutamente. –
-
Abbi
pazienza e poi vediamo. Mentre mi preparano la roba puoi farti un giro, ci sono
molte cose carine qui. Vai! Su! – E mi spinse gentilmente verso gli scaffali di
souvenir.
Molte di questi raffiguravano i boschi circostanti
del Nevada, intagliati nel legno o dipinti su di esso. C’erano molti oggetti da
appendere alle pareti, quadri, orologi e buffe clessidre che rivelavano la
situazione meteorologica attraverso il
livello dell’acqua che, al suo interno, si
abbassava e alzava seguendo la pressione atmosferica. Era buffo, erano tutte
esattamente allo stesso livello. Le presi in mano girandole e giocandoci,
quando un ragazzo dietro al banco lì a fianco si avvicinò. Lo guardai
curiosa, mentre, appoggiando i gomiti sul tavolone di legno,
mi osservava divertito. Doveva avere forse diciotto anni e negli occhi gli
brillava il cielo più blu che avessi mai visto. I capelli biondissimi erano
lunghi e gli ricadevano sulla fronte come fossero disegnati su di lui.
Sorrideva e le sue labbra piene e rosee incorniciavano una dentatura perfetta.
La lingua pizzicata tra i denti era vergognosamente sexy e quando mi resi conto
dell’effetto mi vergognai di averlo pensato e divenni paonazza.
-
Ciao,
ti serve aiuto? –
La voce era grave e carezzevole e non me l’aspettavo
da un ragazzo tanto giovane. L’accento del posto era marcato, quindi doveva
trattarsi di un ragazzo che viveva lì.
Gli
sorrisi sinceramente.
-
In
realtà, sì! – Mi avvicinai mettendomi di fronte a lui. Aveva qualcosa di
familiare.
-
Chiedi
pure, sono tutto tuo. – Era disarmante, non era malizia la sua. O almeno non
sembrava a me.
-
Volevo
portarmi a casa quelle pietre magiche che avete appese al soffitto, ma non le
trovo da nessuna parte. –
-
E’
così, hai detto bene, sono magiche. Quando quella melodia entra nella tua casa,
la tua vita cambia. – Si sollevò
rivelando la sua notevole altezza. Gesticolava con le mani e non potei fare a
meno di notare quanto fossero grandi e gentili.
-
Bene.
- Dissi piano, ma lui sentì ugualmente.
-
Non
le troverai perché sono terminate, sono l’articolo più venduto di tutto il
negozio. – Lesse sul mio viso la delusione e riprese a parlare.
-
Ma
se proprio ci tieni…- aspettò che lo implorassi con gli occhi – potrei staccare
una di quelle che sono sopra di noi, ma dovrai aspettare domani, ora non ho
tempo come vedi. –
-
E’
perfetto, grazie, sei molto gentile. Devo tornare domani? –
-
Posso
consegnarlo anche a casa tua se mi dici dove alloggi. –
-
Sono
in una villa qui sulla strada…- Mi resi conto di non saperglielo spiegare, ma
pensai che Lia potesse farlo e la cercai con gli occhi.
-
Puoi
aspettare un momento? Torno subito. – E tornai al bancone dove Lia aveva
terminato di fare le compere. Stava raccogliendo i manici delle borse e mi offrii
subito di darle una mano.
-
Lia,
mi devi aiutare. –
-
Certo,
dimmi tutto. – Si caricava le borse come fossero piene soltanto di patatine,
mentre invece il loro peso rischiava di spaccarmi la schiena. Ero decisamente fuori allenamento. Me ne feci un appunto
mentale.
-
Devi
dire a quel ragazzo lì, dove si trova la villa. Mi deve consegnare le pietre
magiche che fanno “dlin dlon”. Le voglio! – Le feci cenno dove guardare e
subito si aprì in un sorriso enorme.
Si incamminò verso di lui parlando ad alta
voce.
-
Make,
tesoroo. Ti stai divertendo ad infastidire le signore? Guarda che lo dico a tua
madre. Anzi meglio di no – aggiunse sottovoce – o le prenderebbe un colpo.
-
Lia
ciao. Mi hai beccato! Che ci fai qui? Nostalgia del vecchio lavoro? Non
pensarti di tornare perché ormai è mio. –
-
Non
ci penso nemmeno giovanotto. Sto bene dove sto, tesoro. –
Mi sentivo esclusa, ma rimasi a gustarmi il
quadretto.
-
Ho
sentito che devi fare una consegna. Beh te la ricordi la villa dei McFly?
Quella spettacolare alla fine della baia?-
-
Certo
che la ricordo, è la più bella della costa. –
-
Ebbene
noi siamo lì. –
-
Noi?
–
-
Si,
io lavoro lì e tu sarai il benvenuto. – si girò verso di me – Non è vero
Isabella?-
-
Certamente.
Quando vuoi. – Mi piaceva questa cosa.
Aspettarsi delle visite sembrava un evento
straordinario, mentre in realtà sarebbe dovuto essere la normalità. Uscire di
casa mi aveva allargato il cuore e sentivo di doverlo proporre anche ad Edward.
Ormai era giunto il momento di farlo. Poi ricordai la chiamata di James e l’anima
mi si dipinse di nero.
-
Allora
domani pomeriggio, dopo il lavoro, verrò laggiù. – Mi porse la mano e io la
presi tra le mie.
-
Felice
di conoscerti Isabella. A domani. Ora devo andare o mi licenziano. –
Gli sorrisi. – Ciao. – Gli dissi lasciandola
scivolare via. Era simpatico.
Tornammo barcollanti al furgone, cariche di
ogni sorta di cibarie e, una volta riposte nel bagagliaio, riprendemmo la via
del ritorno. Ci fermammo un istante per raccogliere Giovanni e il suo cane scodinzolante
e in meno di un’ora, come promesso, eravamo di ritorno.
Mentre
Lia preparava la torta di mele tornai al molo e rimasi in attesa del ritorno di
Edward. Mi sedetti sulla panchina accorgendomi che il mio telefono era rimasto
lì, dimenticato da prima. Lo afferrai e lessi il display.
Tre
chiamate senza risposta.
Lo
spensi lasciandolo dov’era.
Mi mancava davvero la tua storia che è sempre un piacere leggere ,ciao e alla prossima .
RispondiEliminaSono felice che tu abbia ripreso a scrivere perché sei davvero brava!
RispondiEliminaFra mi sei mancata tantissimo
RispondiEliminatu nn scrivi storia ma poesie, sei di una dolcezza incredibile
leggo e i miei occhi vedevano la barca allontanarsi e bella sul molo
sentivo i suoni nel negozio questo e quello che sento quando leggo le tue storie!!
alla prossima donna!!
Ecco, spero che questo commento non vada perso come gli altri due che avevo lasciato.. SGRUNT.... comunque come ti spiegavo in MP ieri, questa non è una ff.... forse è nata come tale, ma non lo è più.... anzi non lo è mai stata..... perchè non ne ha l'aspetto,, perchè questa è una storia completa, e questo capitolo ne è una ulteriore conferma.
RispondiEliminaTutte le tue descrizioni, le ambientazioni, è vero che si sentono suoni ed odori anche..... si percorrono strade, melodie, luci.
Vedo e sento tutto.
Questo è quello che provo normalmente quando leggo un bel LIBRO.....
E' una storia molto bella la tua, di perdono, di riconciliazione, di accettazione..... e anche di abbandono....ci sono molte concretezze nelle ambientazioni che descrivi, è la scenografia dei sentimenti.
E questo mi piace, ti contraddistingue da tutto......
Ora basta. Bacio
Bentornata!!
RispondiEliminaSono d'accordo con Andrè! è come leggere un bel libro. Scorrevole, descrittivo, emozionale. Si sente tutto!
Attendo il ritorno di Edward e quelle telefonate sospese purtroppo mi riempiono di angoscia!!
finalmente sei tornata... mi mancava la tua storia, non posso che essere d'accordo con le ragazze qui sopra, leggere le tue storie è vivere le tue storie, perchè tu riesci a coinvolgerci tanto che noi siamo lì sul molo a salutare Edward, oppure sentiamo il suono delle pietre appese al soffitto del negozio. Non tutti i libri riescono a coinvolgermi come sai fare tu, il tuo è un dono stupendo, non mi stancherò mai di dirtelo!!!!
RispondiEliminaContinua a scrivereeeeeeeeeeee