sabato 28 luglio 2012

Capitolo 29



Capitolo 29 - Rose


Corsi oltre il giardino, ignorando le lacrime che mi bagnavano il  viso. Ero stata costretta a trattenerle per tutto il tempo in cui ero stata in quella stanza con Edward, ma ora non era più necessario e potevo lasciare che l’incubo che mi soffocava sfogasse libero.
Tutto intorno a me era distorto e irriconoscibile, mentre correvo pensando soltanto a seguire quel  sentiero di mattonelle ambrate che portava direttamente davanti alla mia porta.
Ancora qualche passo in quel giardino estraneo e sarei stata sola.
Lontana da tutti, ma non dai miei pensieri pressanti.
Saliti i tre gradini come un automa,  mi gettai sul lettino in midollino sotto la veranda che oramai era divenuto il mio rifugio.
Il cuscino era ancora umido del pianto di qualche ora prima e ripensando alla mia vita recente, non riuscivo quasi a ricordare quale fosse l’ultimo giorno in cui non avevo versato lacrime.
La brezza che accarezzava le acque del lago mi raggiunse scivolando sopra i vestiti e quel freddo contatto mi fece rabbrividire, insieme a quell’odore persistente di alghe e fango che col calar della sera diventava più intenso.
Pensare al fondale buio e melmoso di quella distesa d’acqua mi spaventava.
La notte mi svegliavo a volte di soprassalto, coperta di sudore, avvertendo ancora sulla pelle quelle viscide e scure lingue verdi avvinghiarsi intorno alle caviglie trascinandomi verso il fondo.
Quando sarebbe finita quell’orribile tortura.
Non passava un solo giorno senza che ripensassi a quel tragico momento.
Prima di accettare quell’insolito incarico avevo considerato tanto il fatto che tornare a casa, senza soffrirne, mi sarebbe stato impossibile.
Ma  lo dovevo fare.
Era una questione di principio.
Mi raggomitolai sul fianco accartocciando la coperta in grembo e chiusi gli occhi…sperando che il buio dietro le palpebre cancellasse le immagini che scorrevano inesorabili nella mia mente.
A casa.
Strideva anche soltanto pensarla quella parola.
Non la sentivo più come tale da quella notte in cui tutto era cambiato e le certezze che mi avevano accompagnata fin da bambina erano svanite scomparendo.
Quanto era amara la vita a volte.
Giocava a mostrare il futuro come uno splendido scenario dipinto di rosa e
poi non si faceva scrupolo di imbrattarlo di nero, gettando il viscido colore a secchiate sulle nostre speranze.
Casa.
Mi girai sull’altro fianco, rivolta verso il bosco, per evitare che il baluginare degli ultimi raggi di Sole cercasse di rischiarare quel buio rassicurante dentro al quale mi nascondevo.
I pensieri trovarono un varco in quell’ombra fatua e accesero i ricordi di un passato che non sarei riuscita mai a dimenticare.
La casa di legno chiaro dove ero cresciuta, quei tre scalini consumati sui quali inciampavo sempre salendo, l’altalena appesa al ciliegio centenario e quel cancello rotto, legato con un gancio alla staccionata, che non  avevo ricordi di aver mai visto in altro modo. Il sentiero che portava al molo…le canzoni…
Sbarrai gli occhi, cercando di cancellare quell’immagine.
Mi faceva soffrire troppo.
Non vedevo la mia famiglia da quasi otto anni e, a parte qualche breve telefonata a Natale, il muro di silenzio calato tra me e loro era diventato insormontabile.
Sarebbe dovuto essere il contrario, ma il tempo non era riuscito a risanare quel profondo solco che ci aveva divisi.
Tutto ciò non aveva senso per me.
L’unico componente che ancora avesse voglia di sentire la mia voce era mio fratello Mike che, troppo piccolo per capire cosa fosse accaduto all’epoca, non aveva mai smesso di volermi bene.
Per i miei genitori oramai non esistevo più.
Mike era il solo a credere che tutto quello che era successo otto anni prima non fosse dipeso da me, nonostante fosse cresciuto in una casa dove la mia colpa rivestiva le pareti come carte da parati.
La villa era situata a pochi chilometri dal paese dove ero nata , ma nonostante lo desiderassi, non avevo  ancora trovato il coraggio di chiamarlo per fargli sapere del mio arrivo.
La paura che improvvisamente anche lui mi rifiutasse me lo aveva impedito.
Mia madre non si degnava nemmeno di guardarmi in faccia, quasi che l’essere rimasta in vita fosse ai suoi occhi un’imperdonabile colpa.
Le chiacchiere del paese erano state per lei come un sortilegio sulla sua casa ed essendo io in parte la responsabile di questo, mi guardava come una strega da mandare al rogo.
Non le importava che io fossi sua figlia…per lei non ero altro che l’incarnazione costante del suo dolore.
Guardavo quella donna che avevo per anni chiamato mamma chiedendomi chi fosse veramente e cosa di lei avessi nelle vene…sperando di riuscire a non assomigliarle mai nella mia intera esistenza.
Mio padre era un uomo privo di carattere, ligio al suo lavoro di manovale e sempre silenzioso. Quando mia madre mi aveva imposto di andarmene lui era rimasto seduto nella sua poltrona di pelle senza dire una parola e dopo avermi fissata per qualche istante non aveva esitato ad abbassare nuovamente gli occhi sul giornale e a continuare a fumarsi la pipa.
Non era più mio padre.
Non più.
Un vero padre probabilmente non lo era mai stato.
Non avevo un solo ricordo in cui avesse avuto un gesto benevolo nei miei confronti. Soltanto Mike aveva goduto di questo privilegio, ma col senno di poi non sapevo se questo rappresentasse un privilegio oppure il contrario.
Qualche giorno per i preparativi e avevo poi raggiunto mia nonna a San Diego, in quella stessa casa dove avevo trascorso tante estati felici.
Lei non aveva mai accettato il comportamento di mia madre, ma conoscendola molto bene,  aveva pensato a crearmi una nuova opportunità di vita, anziché infliggermi di vivere forzatamente con loro soltanto perché mi avevano generato.
Nonna Ruth mi aveva salvata.
Le ero infinitamente grata per questo.
Peccato non avesse potuto fare lo stesso anche per Emily.
Emily…
Pensare ad Emily era troppo doloroso, ma qualsiasi cosa vedessi intorno me la ricordava.
Le lacrime salirono spontanee annegando le immagini del bosco che avevo davanti, sciogliendole in una massa informe e scura.
Chiusi gli occhi per allontanarle…e scivolando si unirono a quelle versate qualche ora prima sul cuscino.
Emily.
Eravamo uguali…eppure così diverse.
Da piccole nostra madre ci costringeva ad indossare abiti identici e pettinava i nostri lunghi capelli biondi come due bambole da esposizione.
Non era per cura e amore che ci preparava prima di uscire, ma per mostrare al vicinato cosa era stata capace di mettere al mondo.
Due splendide gemelle.
Un trofeo di cui essere fieri.
Fino alla nascita di Mike eravamo state la sua priorità, ma la nascita di un maschio, che avrebbe dato un futuro al nome della famiglia, portò altrove la sua attenzione.
La cosa fu una benedizione per noi perchè ci diede modo di mostrare al mondo quelle che sentivamo di essere veramente.
Fu proprio in quel momento che tutte le diversità tra me ed Emily vennero alla luce…
Tutte… tranne il fatto di essere esternamente identiche…. due gocce d’acqua.
Avevamo dieci anni e tutta la vita davanti.
I successivi cinque anni  ognuna di noi si impegnò in progetti differenti e mentre io diventavo la prima della classe e sognavo di frequentare una università prestigiosa, Emily abbracciava la musica country e accompagnandosi con la sua chitarra, scriveva canzoni che mi cantava la sera sul molo davanti casa, prima di andare a cena.
Ricordavo ancora quanto mi emozionasse la sua voce e quanto in alto mi facessero volare le sue parole sull’amore e la vita.
A volte le cantavamo insieme e alla fine potevamo leggere una negli occhi dell’altra quanto questa cosa ci unisse.
L’amavo come se fosse parte di me…ed era così….
Mi era impossibile pensare la mia vita senza di lei, perché in quella sua esuberanza e quel suo essere solare e spiritosa vivevo tutto quello che non
avevo il coraggio di essere.
Con la pubertà erano arrivati i problemi.
Mamma si era accorta che i ragazzi cominciavano a ronzare intorno a casa e ci proibì di uscire dopo il tramonto, poi ci impedì di farlo anche il pomeriggio…e d’accordo con mio padre ci vietò ogni uscita con le amiche.
Non era prudente secondo lei fraternizzare coi ragazzi del paese.
Oltre alla scuola non ci era permesso nulla.
Mentre io soffocavo la frustrazione nello studio, Emily trovò il modo di aggirare il problema calandosi dalla finestra e fuggendo via, rientrando solo molto tardi, quando mia madre dormendo non la poteva sentire.
Adoravo mia sorella anche se non condividevo il suo modo di comportarsi.
Non mi importava nulla di quello che pensava mia madre,  io avevo solamente paura che potesse succederle qualcosa.
Lei rideva e mi raccontava delle sue avventure, dei posti che scopriva nelle sue scorribande e di quanto fosse divertente farlo sotto il naso dei miei genitori. Rimanevo ogni sera ad attenderla col cuore in palpitazione, terrorizzata che una volta o l’altra non rientrasse affatto.
Una notte era rincasata più tardi del solito…silenziosa, ma sorridente.
Mi confidò, sotto alle lenzuola del grande letto che dividevamo, di aver conosciuto un ragazzo favoloso…che diceva di amarla e che le aveva promesso che l’avrebbe resa felice.
Non sapevo cosa dirle e mi limitavo ad ascoltare le sue confessioni affascinata dal suo modo colorito di raccontarle. Viveva tutto come una favola, mentre meticolosa com’ero io non potevo immaginare nulla che non fosse materialmente davanti ai miei occhi.
Le invidiavo questa capacità di evadere dalla realtà e non sapendolo fare allo stesso modo,  mi affidavo alle sue parole cavalcando le sue fantasie e i suoi sogni come in groppa ad un regale destriero.
Era la mia via di fuga…la mia libertà.
I giorni erano passati troppo in fretta.
Non potevo immaginare quanto fosse pericoloso allontanare i piedi da terra e saltellare tra le nuvole.
Questo mi diceva sempre prima di cominciare i suoi racconti.
-         Sei pronta a volare con me?-
Le facevo cenno di sì con la testa e sorridendo mi accoccolavo sul cuscino accanto a lei ad ascoltarla, senza riuscire a formulare alcuna domanda per non distrarla dal suo racconto.
Quello era stato il periodo più bello della  mia vita.
Emily mi mancava moltissimo.
Senza di lei niente mi era sembrato più così bello.
Niente.
Il mio lavoro era la mia vita.
Dedicavo ogni energia in quello che facevo.
Niente voli pindarici che mi portassero oltre ciò che avevo davanti.
La mia realtà era toccare con mano…e non ero stata mai capace di fare altro.
Ci avevo provato, ma io non ero lei…
Singhiozzai  lasciando che il pianto mi liberasse del profondo dolore.
Emily sarebbe rimasta sempre con me.
Emily era la parte di me che non sarei mai stata.
Mi sollevai a sedere respirando a fondo per riprendere il controllo.
Dovevo mangiare qualcosa altrimenti avrei perso le forze e non avrei potuto fare bene il mio lavoro.
Stavo dimagrendo e i vestiti mi pendevano addosso.
Non andava bene, dovevo reagire.
Rimettere in piedi Edward era il mio obbiettivo.
L’avrei portato a termine e poi avrei pensato a qualcos’altro che mi impegnasse mente e corpo.
Focalizzare la mia mente in quella direzione mi avrebbe aiutata a sopportare quel peso nel cuore.
Mi sistemai i capelli e raccolto il fazzoletto che avevo in tasca mi asciugai gli occhi e mi soffiai il naso.
Mi alzai in piedi notando una figura camminare lungo il sentiero che costeggiava le sponde del lago.
Era solo un’ombra nera sullo sfondo illuminato del lago, ma quell’incedere attirò la  mia attenzione e rimasi ad osservarlo.
Era un uomo giovane e atletico.
Aveva capelli lunghi e un  fascio di corde infilato in un braccio appoggiato alla spalla. Non potevo vedere altro da lì, ma per un attimo quella figura mi parve familiare.
Lo osservai scomparire dietro il fogliame del bosco e con quel senso di dèjà vù rientrai in casa.
Lia mi preparava sempre cibi di ogni sorta e aprendo il frigo non ebbi che l’imbarazzo della scelta.
Avrei dovuto ringraziarla invece di isolarmi sempre tra quelle mura di solitudine.
Predicavo sempre ad Edward di lasciarsi il passato alle spalle e di aprirsi al futuro, mentre io non facevo altro che serrarmi dietro un muro di alibi per non rischiare di perdere quell’equilibrio che credevo tenermi in piedi e che in realtà mi teneva legata come in una prigione.
Mi preparai un piatto leggero di vitello tonnato e di verdura cruda, accompagnandolo con un bicchiere di vino rosso.
Era grazie ad Edward che avevo cominciato ad apprezzare il buon vino e anche molte altre cose che prima per me non esistevano.
Il tempo trascorso con lui era stata una terapia anche per me e sebbene lui non se ne fosse accorto, la sua compagnia mi aveva aiutata ad uscire dalla mia solitudine interiore.
Gli dovevo molto…ma non glielo avevo mai detto.
Anche per questo motivo sentivo il bisogno di realizzare il suo sogno.
Era una sorta di tacito accordo che avevo fatto con me stessa e al quale non potevo e non volevo sottrarmi.
Poco prima lo avevo assalito senza motivo.
Non lo meritava e al più presto mi sarei scusata.
Edward era un uomo profondamente buono e incapace di ferire le altre persone e sapevo che dietro le sue domande insistenti c’era soltanto la preoccupazione di aver mancato nei miei confronti.
Posai le stoviglie sul piano della cucina e tagliai del melone a pezzi.
Li raccolsi in una tazza e andai sulla veranda a guardare le prime stelle e la luna alta in cielo.
Mi sedetti sul dondolo lasciandomi cullare da quel movimento ritmico che mi rilassava.
Intorno solo il canto del bosco e dei grilli impegnati in concerti di gruppo.
Emily avrebbe ascoltato ad occhi chiusi e poi mi avrebbe chiesto…
-         Sei pronta a volare con me? –
Guardando il cielo sorrisi e parlando alla Luna le risposi.
-         Si, Emily…portami via con te! –

giovedì 19 luglio 2012

Capitolo 28


Capitolo 28 – Edward



Mi lasciai scivolare dentro l’acqua, raccogliendo i pensieri in quell’atmosfera ovattata e intima che sembrava isolare il mondo al di fuori.
Come protetto,  ascoltavo il mio respiro tenuto prigioniero.
 La temperatura era perfetta e le piccole luci sul soffitto a volta donavano a quell’ambiente la serenità necessaria a rilassare la mente.
Lasciai fuoriuscire l’aria dalla bocca, rovesciando l’ansia in quell’abbraccio di benessere e osservai le bolle informi salire in superficie, fino a scoppiare raggiungendo la libertà.
Riemersi lentamente, appoggiando la testa al bordo della grande vasca.
Premetti il pulsante dell’idromassaggio, lasciandomi cullare dal rollio confortante del motore che lo azionava.
Sospirando fissai lo sguardo sulle tre candele sul ripiano accanto a me…e lasciai che i pensieri tenuti a freno prendessero il sopravvento.
Rose.
Quella donna era un mistero e,  ogni giorno che passava,  la sentivo più estranea e distante.
Avevo dato per scontato che il nostro rapporto di amicizia fosse sincero e stabile, ma forse , nella situazione in cui mi trovavo, non avevo tenuto conto di molte cose che,  troppo concentrato su me stesso,  non  ero riuscito a vedere.
Tre settimane erano un tempo troppo breve perché un’amicizia come la nostra potesse cambiare così tanto e, ogni giorno di più, mi ritenevo responsabile di questo mutamento.
Mi ero sbagliato però.
Così aveva detto lei.
O forse il suo intento era di  farmelo credere.
Ancora non capivo cosa le stesse succedendo.
Ogni giorno era presente alle terapie e si faceva in quattro perché tutto funzionasse come stabilito.
Mi salutava distrattamente e prestava attenzione soltanto ai commenti dei medici e dei fisioterapisti che senza pause andavano e venivano dalla villa senza che io ne conoscessi i programmi.
Mi fidavo ciecamente di Jasper e obbedivo ad ogni richiesta da parte del suo staff, ma in tutto questo mi sentivo solo.
Sì! Solo!
Rose era impeccabile nel suo lavoro e in questo, almeno,  non era cambiata.
Non potevo ignorare però le occhiaie profonde che segnavano il suo viso e quegli atteggiamenti freddi e distanti,  dietro ai quali nascondeva qualcosa che non capivo.
Era frustrante.
Quando poi riappariva Isabella dimenticavo tutto.
La sua gioia e allegria ritrovata, mi rimettevano al mondo e sebbene le terapie stessero avendo l’effetto previsto, la cura migliore era sempre lei.
Non avevamo più discusso su niente, ne avuto dissapori di sorta e sembrava che i nostri problemi, prima insormontabili, si fossero dissolti in quell’aria profumata di resine e di erba tagliata, non appena eravamo scesi da quell’auto dopo il lungo viaggio da San Francisco.
Era bastato respirare il confortante odore del lago…e tutto era cambiato.
Ero molto felice e ogni giorno aspettavo di terminare gli impegni per rilassarmi con lei, per poterla stringere e rimanere soli.
Avevamo parlato per ore e col trascorrere dei giorni tutto il buio che ci aveva circondati si era dissolto.
Dentro me era tornato a splendere il Sole.
Isabella era la mia luce e senza di lei ogni piacere svaniva.
La notte eravamo una cosa sola e in quel lasso di tempo tutto nostro, ritrovavamo la familiarità dei nostri gesti e l’armonia dei nostri corpi.
Non avevo recuperato l’intera energia di un tempo, ma i progressi che vivevo sulla mia pelle mi davano la certezza che fosse una cosa possibile.
Il solo crederci…era già una cura.
Durante le ore in cui ero occupato,  Isabella si dedicava al suo lavoro.
 James la chiamava continuamente per tenerla al corrente degli sviluppi circa il processo di cui mi aveva accennato.
Non chiedevo mai nulla di tutto questo.
Mi bastava vederla tranquilla e sapere che stava bene.
Quando al pomeriggio mi raggiungeva non portava il telefono con sé e di questo le ero infinitamente grato.
Era il nostro tempo…e ne avevamo già perduto abbastanza per sprecarlo in chiacchiere con altri.
Era serena e sembrava che tutto fosse sotto controllo.
Avevo intenzione di  chiederle di uscire a cena da qualche parte.
Lei ed io…soli.
 Stavo progettando il modo migliore di farlo insieme a Lia e Marta che,  trattandosi di una sorpresa, non stavano nella pelle per aiutarmi.
Era solo l’inizio.
L’inizio di una nuova vita insieme.
Era tutto perfetto.
Tutto.
Tranne l’umore di Rose…e i suoi silenzi.
Mi aveva spiazzato quando poco prima aveva alzato la voce.
Non l’avevo mai vista alterarsi, nemmeno in occasioni in cui sarebbe stato normale farlo.
Eppure era accaduto.
Mi stavo preparando per il massaggio e non appena era entrata avevo avvertito il suo malumore.
Era arrossata in viso come se avesse corso e il respiro le veniva a fatica….
Mi riscossi.
Isabella mi stava aspettando e non volevo perdere nuovamente il  buonumore ripensando a quella discussione.
Mi sforzai…senza riuscirvi.
Cercai di allontanare il ricordo dell’immagine di lei in quello stato, concentrandomi sulle fiammelle fluttuanti, che sembravano poter rapire la mia mente e portarla lontano, ma non ebbi successo.
La candela di destra si spense, liberando al suo posto un sottile filo di fumo bianco, che indeciso se salire o scendere, disegnava le sue incertezze nell’aria, come un  artista dipinge le sue paure su di una tela.
Soffiai in quella direzione…per interrompere quell’agonia.
Il fumo svanì…. e il dialogo con Rose tornò a risuonarmi nelle orecchie…
Chiusi gli occhi e la rividi…
-      Rose stai bene? – Mi sembrava stanca e i capelli erano scomposti.
-      Certo, sto benissimo, perché? –
Sorrideva sforzandosi di apparire normale, ma gli occhi erano cupi e non riusciva a nascondere il fiatone.
-      Mi sembri scossa. –
Mi ero steso supino e avevo steso le braccia lungo i fianchi.
Soliti movimenti.
Lo avevamo fatto milioni di volte e non era necessario aspettare ordini da lei.
-      Non è niente…ero in ritardo e mi sono affrettata, tutto qui!-
Voleva chiudere la discussione e stendendo l’asciugamano sopra di me si richiuse nel suo silenzio.
Gli occhiali le scivolavano sul naso, mentre gocce di sudore le colavano dalle tempie.
Dovevo fare qualcosa.
Non riuscivo a starla a guardare ignorandola,  mentre si tormentava così.
Si era lavata le mani con cura e rinfrescata il viso.
 Asciugandosi poi,  era tornata da me.
Lasciai che si versasse l’olio nelle mani e che iniziasse il suo lavoro.
Occhi chiusi e braccio ripiegato sopra agli occhi, pensai a come affrontare quel discorso che da tempo volevo fare con lei.
Le sue mani erano pesanti e nervose e quando le fece scorrere sulla coscia, per allungare il muscolo, scivolò graffiandomi.
Mi lamentai sollevando le braccia e lei si fermò.
-      Scusami Edward…Non so cosa mi prenda oggi, mi dispiace tanto. Io…- La interruppi prima che dicesse altre sciocchezze.
-      Calmati Rose…ehi….guardami. Non è successo niente. – Alzò i suoi occhi blu cercando conferma ed io gliela diedi sorridendole.
-      Il  fatto è che non dormo bene e stanotte non ho proprio chiuso occhio.-
Si era chiusa le mani sopra il viso strofinandosi gli occhi mentre parlava, urlando poi per il bruciore causato dall’olio mentolato che aveva sulle dita.
-      Oh mio Dio…sono davvero un’idiota oggi…guarda cosa ho fatto… - ed era corsa a bagnarsi gli occhi direttamente dal rubinetto.
Mi ero messo a ridere, ma lei sembrava arrabbiata e invece di assecondarmi mi attaccò.
-      Smettila! – Un comando secco. Non era lei.
-      Ma che ti succede Rose, non ti riconosco più. – Sbuffò continuando il suo lavoro meccanicamente senza darmi risposta.
-      E’ dal giorno che siamo arrivati qui che non parli più con me. –Insistetti.
-      Non è vero! Stiamo parlando no? – Cercava di controllarsi, ma con scarso risultato.
-      Ma non come prima. Sei distante e non sorridi più. E’ colpa mia vero? –
-      Non so cosa ti sia messo in testa , ma non è così. –
-      Davvero? Io non credo. Jasper ti ha forse costretta a venire? Se così fosse mi spieghi perché non me lo hai detto?-
Riprese a massaggiare con decisione eccessiva e mi faceva male.
 Non rispondeva.
Resistetti a quell’assalto muto…volevo arrivare al dunque.
-      Dannazione Rose, aiutami a capire. Non voglio che tu stia male per colpa mia. – Si innervosì ancora di più, ma la sua bocca rimaneva sigillata e questa cosa mi spiazzava.
Sollevò l’asciugamano spostandolo sulle gambe.
Riprese l’ampolla dell’olio e se ne versò forse troppo sul palmo della mano, rovesciandone delle gocce sul mio petto.
-      Ora stai un po’ in silenzio e lasciami lavorare Edward. –
Acida, piena di rancore.
Avevo fatto centro.
Ero io la causa di tutto.
-      Ecco, lo vedi? Ce l’hai con me. Ma come diavolo faccio a sapere cosa ho fatto se non me lo dici?-
Si fermò di colpo.
Le dita affondate sulla mia pancia pressavano troppo, ma sembrava non accorgersene. Il suo viso era cambiato e gli occhi si erano ridotti a due fessure.
Le labbra tirate.
Pochi istanti ed esplose.
-      Edward Cullen, forse ti sembrerà impossibile crederlo, ma non tutto, a questo mondo, gira intorno a te. –
-      Non volevo dire questo, ma dopo l’incidente eri…- Non mi permise di continuare.
-      L’incidente…l’incidente…non sai parlare d’altro. Ma ti rivelerò una cosa. Non sei l’unico ad avere sofferto nella vita e non sei il solo che abbia delle difficoltà da superare, ok? Se ho voglia di starmene in disparte è perché lì fuori c’è qualcosa che non volevo ricordare e che questa tua vacanza mi ha invece costretta a rivivere. Sono scappata da qui molti anni fa e c’era una buona ragione che mi ha spinta a farlo, ma tu sei troppo accecato da te stesso per pensare che possano esistere ragioni differenti da te. Non è così?
-      Rose, io pensavo che…-
-      Che cosa? Che soltanto tu hai il diritto di sentirti a pezzi? Che il tuo dolore sia più grande di tutti gli altri e che nessuno oltre te possa veramente capire cosa significhi soffrire ? Beh non è così che stanno le cose. Perché per te tutto si risolverà e riavrai la normalità che ti spetta, mentre io ….io non riavrò mai indietro quello che ho perduto…mai..lo capisci? Mai! –
-      Di cosa parli Rose, calmati…ti prego. –
Le lacrime le solcavano il viso, silenziose al punto che nemmeno lei se ne accorse.  Si guardò le mani rendendosi conto di farmi male, mentre io gliele stringevo per scuoterla da quell’angoscia rivelata.
     Si rese conto all’improvviso di aver perso il controllo e tornando in sé mi  posò la mano sulla guancia preoccupata.
-      Stai bene? Edward scusami…tu non c’entri niente. Perdonami davvero…non so che mi è preso. –
-       Non è niente, sto bene,  ti prego stai tranquilla. – Afflitta abbassò gli occhi a terra. Quel che disse dopo era solo un sussurro.
-      Lascia perdere quello che ti ho detto, ok? Va tutto bene. –
Si ricompose tornando ad interpretare quello che oramai mi era chiaro fosse solo un ruolo,  per nascondere al resto del mondo chissà quali amarezze. Riprese a respirare regolarmente e si lisciò il camice scorrendo le mani lungo il corpo. Gesti rituali che la riportarono alla calma.
Si decise a parlarmi, mentre riponeva l’olio e le altre cose nel cestino accanto a me.
-      Sono qui per finire quello che ho cominciato Edward e a costo di metterci il resto dell’anno io ti rimetterò in piedi come promesso. Il resto non ha importanza. Dimentica le sciocchezze che ti ho detto. –
-      Non lo farò Rose, io ti voglio bene e quando avrai bisogno di me…io ci sarò. –
Rimase silenziosa, mentre mi rivestivo.
Stava per uscire dalla stanza, ma la trattenni afferrandole un braccio.
Rimase immobile…senza voltarsi.
-      Non so cosa ti sia successo di così terribile Rose, e credimi se ti dico che mi dispiace, ma ricorda… -
…feci una pausa, mentre la sentivo tremare sotto le dita…
-Non sei sola. Per qualsiasi cosa…io ci sarò. – La lasciai andare.
Raggiunta la porta si era voltata volendo dire qualcosa, ma all’ultimo decise di tacere… e un istante dopo non c’era più.
Istintivamente avevo afferrato la maniglia dell’elevatore e avevo cercato di mettermi in piedi, ma le gambe non mi avevano retto e mi ero accasciato a terra.
Poco male.
Ci avrei riprovato fino a riuscirvi.
Mi trascinai alla parete poggiandomi con la schiena e aiutandomi con le braccia accavallai le gambe.
Ero esauto.
Frastornato.
Pieno di domande.
L’arrivo di Isabella aveva spazzato via tutto quel senso di impotenza che gravava sui miei pensieri…e ora…rimanevano solo le domande senza risposta.
La musica e la voce di Isabella che cantava in cucina mi riportarono con un sorriso al presente.
Quella donna era nata per farmi felice e sentii il bisogno di raggiungerla.
Ci misi il tempo di un paio di canzoni e,  con l’ingegnoso aiuto dei sofisticati automatismi,  fui pronto a tornare da lei.
Quella casa mi faceva sentire di nuovo autonomo e l’effetto sul morale era incredibile.
 Diedi un’ultima occhiata allo specchio, lisciandomi i capelli ancora umidi all’indietro. Ero migliorato. Con un accenno di barba ero proprio uno schianto.
Sorrisi a me stesso strizzandomi l’occhio e mi avviai alla cucina.
Il profumo che sentivo nell’aria era delizioso, e più ancora lo fu ciò che vidi quando varcai la soglia.
Il tavolo era arricchito di una tovaglia color pesca e le candele al centro svettavano tra la frutta fresca che proveniva dal nostro giardino.
Piattini di antipasti erano già disposti con cura e Isabella era intenta ad accendere le fiammelle con un fiammifero che sembrava non volesse saperne di prendere fuoco. Cantava e imprecava mantenendo il ritmo della musica e non seppi trattenere la risata che sorse spontanea nel vederla in difficoltà.
-      Hai bisogno di aiuto? – Mi avvicinai. Lei,  intenta,  mi rispose senza voltarsi.
-      Credo di potercela fare. – E continuò imperterrita.
L’aria fresca che entrava dalla finestra spalancata profumava di gelsomino e gli ultimi barbagli di luce creavano ombre che giocavano a rincorrersi alle pareti.
Isabella aveva spento tutte le luci tranne quella sopra ai fornelli e l’atmosfera era suggestiva e rilassante.
Quando si voltò rimasi a bocca aperta.
Indossava un abito blu che le fasciava i fianchi lasciando scoperta la schiena . I capelli sciolti sulle spalle sembravano godersi il contatto con la sua pelle e la collana lunga che le aveva regalato l’estate precedente completava il tutto dando un tocco di eleganza.
Era scalza…come da tradizione.
Non lo faceva da moltissimo tempo e rivedere le sue dita arricciarsi non appena vi posai gli occhi mi allargò il cuore.
La mia Isabella era tornata.
La mia vita era ricominciata.
La camicia azzurra che avevo indossato mi parve appropriata e il Jeans scolorito sapevo che la faceva impazzire.
Eleganza e sex appeal non sempre andavano di pari passo.
 Sapevo di piacerle un po' informale e dallo sguardo che aveva compresi di avere ragione.
La raggiunsi guardandola così come si fa con una dea e raccogliendo la sua mano gliela baciai…sfiorandole le prime due dita, come adorava.
Fissai i suoi occhi nascosti nell’ombra e le sussurrai poche parole lasciando che il fiato le accarezzasse la pelle della mano.
-      Se volevi fare colpo su di me…sappi che sono rimasto senza fiato. – E l’attirai a me cercando le sue labbra.
-      Il cibo italiano è altamente afrodisiaco. Lo sapevi?- Si trattenne ad un soffio dalle mie e il desiderio di lei sfondò prepotente ogni barriera facendomi dimenticare ogni altro piacere.
-      Non quando ci sei tu nei paraggi. Sento solo la voglia di te. – Le soffiavo le parole sul volto…lente… le solleticavano la pelle che reagiva rabbrividendo.
-      Non vorrai sprecare tutto questo ben di dio…non sarebbe carino. – Le sue labbra toccarono le mie,  ma subito si ritrassero. Obbedienti le mie le seguirono, ma trovarono le dita della sua mano a fare da scudo.
-      Ceniamo in fretta…ti prego. - La tentai.
-      Il tempo necessario…te lo prometto. –
Si sedette sulle mie ginocchia e mi avvolse tra le sue braccia.
La baciai mettendovi tutta la passione che sentivo viva dentro di me e quando poi la guardai negli occhi, vi lessi la promessa di una notte indimenticabile.
Le donai tutto me stesso e il profumo di gelsomino e di cera sciolta…impresse per sempre quei momenti nella mia memoria.
Una serata incantevole…che avrei ricordato per il resto della mia vita.

giovedì 12 luglio 2012

capitolo 27


Capitolo 27 – Isabella


Il piccolo Giovanni rincorreva il suo Labrador lungo le sponde luccicanti del lago al tramonto, mentre sua madre lo chiamava a gran voce per tornare, come ogni sera, alla loro casa.
L’aria era tiepida e confortante e la respirai inalando più che potetti.
Un altro giorno assolato e stanco si nascondeva all’orizzonte, dietro solide vette tondeggianti che ogni sera abbracciavano la luce del Sole, placandola poco a poco.
Gli ultimi raggi sembravano aggrapparsi disperati alle nuvole di passaggio, tracciando il cielo di filamenti fiammeggianti che il buio della notte sopiva inesorabile , in un gioco senza fine.
Rimasi ad osservare Marta e suo figlio che costringevano il grosso cane a salire nel bagagliaio dell’auto e, dopo i soliti bisticci, rimasi ad ascoltare il rombo del loro motore, mentre si allontanavano lenti lungo il sentiero alberato, scomparendo tra il fogliame sempre più fitto.
Erano trascorse tre settimane dal nostro arrivo.
Una sequenza di giorni uno uguale all’altro, di cui personalmente godevo ogni momento.
Le terapie di Edward seguivano un programma molto intenso e aggressivo e tutte le mattine era costretto ad alzarsi molto presto e a raggiungere il team di fisioterapisti specializzati che lo attendevano in palestra.
Alternava fasi di lavoro estenuanti ad altre dedicate al solo rilassamento della muscolatura , senza un attimo di pausa.
Ogni giorno Edward sembrava riacquistare un po’ del suo vigore, ma quasi sempre, nel tardo pomeriggio, dopo ore di esercizi,  lo ritrovavo esausto a chiedersi se tutto quel patire fosse inutile.
Il tempo libero che aveva, lontano dai macchinari e della piscina, lo trascorrevamo insieme, ma la stanchezza e il dolore che attanagliavano il suo corpo non gli davano pace e si trovava costretto a chiedere l’aiuto di Rose per alleviare le sue pene con farmaci e massaggi.
Era preparato, Jasper lo aveva avvertito, ma nonostante questo era molto provato.
In tutto quel tempo Rose si era fatta da parte, intervenendo solo ed esclusivamente se le veniva richiesto e se riguardava le sue mansioni.
Aveva preferito prendere alloggio nella piccola dependance in fondo al giardino e alle volte non la vedevo per giorni.
Sapevo che partecipava a molte delle terapie e che vegliava sull’andamento della ripresa di Edward, informando quasi quotidianamente Jasper che non mancava di tenersi sempre al corrente dei progressi che, pur lentamente, si cominciavano a scorgere.
Edward, nonostante l’intenso lavoro, era sereno e pieno di entusiasmo e non mancava di regalarmi momenti indimenticabili abbracciandomi stretta sotto la veranda della nostra stanza, avvolti da una coperta che si era portato apposta da San Francisco.
Mi aveva raccontato di un sogno fatto qualche tempo addietro in cui tutto avveniva esattamente come ora stavamo vivendo e aveva desiderato così tanto che accadesse che questo già lo appagava,  rendendolo felice.
La notte veniva sopraffatto dalla stanchezza e il più delle volte, sotto l’effetto degli antidolorifici, si addormentava affondando il volto sul mio petto, mentre gli accarezzavo i capelli che ogni giorno diventavano più lunghi.
Era dolcissimo stringerlo nel buio e respirare quel senso di pace.
L’aria aperta gli giovava e la sua pelle aveva ritrovato quel colorito dorato che così bene si intonava al colore dei suoi capelli.
Non mi sentivo così in armonia col mondo da moltissimo tempo e quei momenti di solitudine che mi concedevo,  come ora,  arricchivano la mia anima di profondità e consapevolezza.
Edward era con Rose, nella sala relax.
Lo avrei raggiunto al termine del trattamento per aiutarlo a lavarsi e a prepararsi per la serata.
Avevo ancora tempo.
Un po’ di tempo per pensare.
Scesi i pochi gradini che portavano al prato e senza fretta lo attraversai.
Indossavo dei pantaloni leggeri sotto al ginocchio  e un semplice infradito di pelle e ad ogni passo coglievo fra le dita la freschezza del terreno, che imprigionava sotto di sé l’umido calore della giornata trascorsa.
Assaporai quel contatto con la terra e ne colsi la vita che scorreva inesorabile in ogni filo d’erba.
Le ortensie erano esplose tutte insieme e non c’era angolo del parco senza colore. Ne avrei raccolta forse qualcuna da tenere in casa.
Sollevai lo sguardo tra i rami degli alberi sulla riva, le cui foglie di un verde brillante frusciavano,  spaventando gli uccelli che vi si riposavano sopra.
Pochi giorni e avevo imparato ad ascoltare il canto della natura e quello che inizialmente mi era sembrato silenzio, ora lo avvertivo come musica rilassante e non riuscivo più a farne a meno.
Percorsi senza accorgermene il tratto di riva che conduceva al molo di legno e, attirata dallo sciabordio dell’acqua sotto la chiglia, mi avvicinai alla barca che solitamente ondeggiava pigra e solitaria in attesa di vento.
Il tambuccio era aperto e dall’interno della stiva proveniva la voce di qualcuno che fischiettava.
La curiosità mi fece avvicinare ulteriormente e quando fui accanto alla barca scoprii a chi apparteneva quella voce.
-           Salve! – I capelli schiariti dal sole e la pelle scura da lupo di mare non furono capaci di distrarmi da quei profondi occhi neri che mi accolsero all’improvviso. A petto nudo e jeans scolorito appoggiato in vita era decisamente una favola.
-           Salve. – Risposi come un automa, chiedendomi da dove spuntasse questo ragazzo così giovane e affascinante.
Uscì agilmente sul ponte facendo leva sulle braccia e con un paio di passi mi fu davanti. Sorrideva rilassato, mentre il suo viso esplodeva in una sorta di tripudio di irresistibili rughette di espressione.
Ritto sul bordo della barca si teneva in equilibrio stringendo un cavo che si allungava fino alla sommità dell’albero maestro, mentre la brezza serale gli scompigliava i capelli che gli arrivavano alle spalle.
Il suo sorriso era così candido da confondersi con il colore bianco della barca.
Allungò il braccio e si presentò.
-           Sono Bob, lo skipper di questa bagnarola e lei deve essere la nuova proprietaria della villa, non è così?-
-           Veramente sono soltanto ospite, anche se a dirla tutta mi sento davvero a casa. – Mi guardava fisso negli occhi ed io non potevo che fare altrettanto.
-           Non mi sorprende. Questo posto è senza dubbio il più bell’angolo della costa e isolato com’è,  rimarrà tranquillo per tutta l’estate. – La sua voce era profonda e calda e pensai che si accompagnava bene ai duri tratti del suo volto.
-           Come mai non l’ho mai vista prima? –
-           Beh! Sono stato via per qualche giorno, ma ora sono a vostra completa disposizione.- Il tono che aveva usato mi fece vibrare e istintivamente mi ritrassi di un passo. Quell’uomo era un magnete, ma negli occhi aveva qualcosa di inquietante che mi convinse a starne alla larga.
-           Bene, è molto gentile,  lo terremo presente. Ora è meglio che rientri, la lascio ai suoi lavori. – Allungai la mano educatamente e lui l’avvolse trattenendola per un momento.
-           A presto allora….- Lasciò sospesa la frase in attesa del nome che ancora non gli avevo detto.
Incerta ebbi un attimo di esitazione.
Lui se ne accorse e quasi vittorioso esplose nel suo sorriso aperto.
Mi mise in imbarazzo volutamente, ma cercai di nasconderlo.
-           Isabella… Arrivederci Bob, felice di averla conosciuta. –
-           Il piacere è stato mio….Isabella… - Sentivo i suoi occhi scivolarmi sul corpo mentre mi voltavo e la cosa mi scosse.
Cercando di non mostrare il mio disagio mi allontanai tornando verso casa. Al termine del molo sbirciai alle mie spalle per un attimo e feci in tempo a vedere la schiena muscolosa di quel ragazzo così arrogante che sollevava un pesante sacco di tela che conteneva senza dubbio la vela maestra.
Mi costrinsi a voltarmi e filai diritta in casa.
Oltrepassai la soglia nello stesso istante in cui Rose lasciava la villa per tornare al suo alloggio e incrociandola notai che aveva una strana espressione in viso, come se trattenesse le lacrime o fosse comunque scossa.
Non mi diede modo di rivolgerle la parola e sollevando appena la mano in un gesto di saluto si allontanò veloce, lasciandomi lì a chiedermi cosa le fosse accaduto in quella stanza con Edward.
Dal giorno in cui avevamo discusso a San Francisco non le avevo più parlato e lei aveva fatto altrettanto,  così come le avevo imposto espressamente in quell’occasione.
Edward il più delle volte si addormentava sotto alle sue mani esperte e quando sbirciavo nella loro stanza,  sentivo solo la musica lieve di sottofondo che favoriva il rilassamento.
Niente da dire.
Rose era di parola.
Rinunciai a parlarle e saliti i due gradini entrai in casa.
L’aria profumava di fresie e iris, grazie ai fiori freschi che ogni giorno Marta riponeva sul tavolo e negli angoli delle stanze.
Lia e Marta erano davvero delle domestiche favolose e soprattutto persone discrete e disponibili che con il loro amabile modo di fare avevano contribuito a rendere gradevole la permanenza sia ad Edward che a me.
Ci coccolavano con  menù celestiali e la casa era sempre perfetta ed accogliente.
La domenica avevamo lasciato loro la giornata libera, in modo da poter rimanere soli e per Rose non avevamo pensiero, in quanto viveva indipendente al di là del giardino.
In quelle occasioni cucinavo i piatti che Edward amava di più e lo ascoltavo poi suonare il pianoforte a coda che occupava gran parte del salone centrale. Quando Edward l’aveva visto era quasi impazzito e Jasper gli aveva confessato che era una delle ragioni che lo avevano convinto a portarlo lì. La sera dell’arrivo Jasper aveva insistito perché suonasse e la musica aveva in qualche modo dato il benvenuto definitivo.
Era tutto come lo avevo immaginato e forse anche molto di più.
Raggiunsi il bagno dove Edward mi stava aspettando e lo trovai seduto a terra con la schiena appoggiata al muro.
Le gambe erano accavallate e lui si guardava le dita delle mani mentre le tormentava accigliato.
Lo raggiunsi  in fretta e mi chinai su di lui.
-           Edward, cosa succede, stai bene? – Ero in ansia e già desideravo rincorrere la bella crocerossina per riempirla di insulti. Immaginavo spesso di farlo e a volte mi dovevo trattenere a forza dal renderlo reale.
-           Isabella… ciao amore. –
Sembrava tornare da un altro luogo, come se la mia voce l’avesse improvvisamente risvegliato. Si impose di sorridermi, ma lo vedevo evasivo e inquieto.
-           Ma che ci fai qui per terra? –
Ero preoccupata, ma lui sembrava non curarsene, distratto da chissà quali pensieri.
-           Sto bene, sto bene…non ti preoccupare. –
Sospirò rassegnato, passandosi entrambe le mani tra i capelli, come se avesse deciso di ignorare le mie domande e volesse soltanto non parlare affatto.
Afferrò il gancio di leva per sollevarsi col dispositivo appositamente installato nella stanza da bagno e in pochi movimenti si mise seduto sul lettino. L’essere autonomo era uno dei vantaggi di quell’ambiente studiato per tali esigenze.
Lo osservai aspettando che mi raccontasse la sua giornata come al solito, invece si chiuse in un silenzio teso,  spogliandosi da solo prima di adagiarsi nella vasca.
-           Edward che hai stasera? – Ero ancora ferma, in piedi,  dove mi trovavo prima e gli rivolsi la domanda lentamente…sentendomi di nuovo esclusa dal suo mondo.
-           Sono solo esausto…e non ho voglia di parlare, scusami. Domani andrà meglio, devo solo riposare un po’. –
Aveva immerso la testa nell’acqua e uscendo aveva chiuso gli occhi e appoggiato la testa al bordo della vasca.
La barba appena accennata tratteneva le gocce  che scivolavano sul suo viso stanco, brillando alla luce dei faretti sul soffitto.
Era stupendo…come sempre.
Il suo corpo riprendeva giorno dopo giorno vigore e lo osservavo trasformarsi, desiderando sempre più di riaverlo in piedi, di fronte a me per affondare nel suo abbraccio.
-           Vuoi che torni tra un po’? – Subito riaprì gli occhi regalandomi quello sguardo di mare che mi lasciava sempre senza fiato. Accennò un sorriso e sollevò la mano richiamandomi.
-           No, vieni qui! Scusami…ho solo avuto una giornata davvero pesante. –
Mi avvicinai e inginocchiandomi lo baciai.
Il sapore delle sue labbra bagnate si fece spazio dentro di me, riempiendo quel silenzioso vuoto che la sua assenza mi procurava.
Era una magia che ogni volta si ripeteva e che mi faceva comprendere quanto fosse grande il mio amore per lui.
-           Lia ha preparato un piatto italiano apposta per te…devo soltanto dare gli ultimi ritocchi e sarà perfetto. –
-           Quella ragazza è un amore, non fa che viziarmi. – Sorrise un po’ più rilassato. Continuai.
-           Devo essere gelosa? – Lo beffeggiai, scherzando.
-           Se fossi in te lo sarei…credimi. – Ridacchiava lasciandosi cullare dall’acqua.
-           Ah si? Beh…saprei come ripagarti. – Si voltò con gli occhioni spalancati fingendosi sorpreso. Lo amavo quando giocava con me.
-           Davvero? E come? – sussurravamo come due sciocchi, mischiando le parole ai baci caldi e umidi. Si stava rilassando…era nuovamente con me.
-           Il marinaio Bob…- Lo dissi enfatizzando il nome.
-           Ma davvero? E chi è?- Credeva scherzassi. Gli raccontai dell’incontro.
Sembrò accendersi non appena seppe dell’opportunità di uscire in barca e si sollevò piegando le ginocchia.
Lo guardai a bocca aperta, poi di nuovo le gambe. Lui sembrò colto in flagrante e si morse le labbra trattenendo un sorriso. Non resistette a lungo e strizzando gli occhi esplose in una meravigliosa risata.
-           Oh Bella , vedessi la tua faccia. – Risi con lui, ma ancora non credevo ai miei occhi.
-           Cosa mi nascondi, bastardo che non sei altro. Le tue gambe si muovono e non mi dici nulla? –
-           Volevo fosse una sorpresa. Non ti arrabbiare. Sono giorni che mi ammazzo di fatica per riuscire a farlo, ma sì…le mie gambe si muovono. – Era felicissimo. Pochi minuti e il suo umore era mutato del tutto.
-           Aspetta, vorresti dire che riesci a camminare? – Rimasi in attesa della risposta.
-           Non correre troppo, non è così facile. Per ora riesco soltanto a fare dei movimenti in acqua, ma son convinto che Jasper avesse ragione. Sta funzionando. – Mi guardava fisso negli occhi e vi lessi totale fiducia.
-           Oh sono felicissima amore, anche se avrei preferito me lo dicessi. Sono qui per condividere tutto con te e non voglio che tu mi nasconda nulla. Me lo prometti? – Mi strinse baciandomi con lo schiocco, bagnando me e tutto il tappeto intorno.
-           Ok…anche se vedere la tua faccia…credimi… è impagabile. – Lo torturai per gioco e poi mi sollevai asciugandomi col telo lì a fianco.
-           Bisogna festeggiare. –
-           Direi di sì! –
-           Vino buono, cena italiana e musica romantica…che dici ti va?-
Si tuffò nuovamente sott’acqua e poi riemerse lisciandosi i capelli indietro.
-           Perfetto. Dammi qualche minuto per rilassarmi e poi sono tutto tuo. –
-           Mmhh… Tutto mio?. – Feci un po’ la cretina per farlo ridere e la cosa sembrò funzionare.
-           Ti lascio solo. Vado in cucina…baby! – E uscendo dalla stanza feci scorrere la gamba sul profilo della porta.
Lo sentii ridere sereno e con calma raggiunsi la cucina.
Avrei cercato le mie risposte in un altro momento.
Ora era tempo di festeggiare.